Alvaro alla redazione de “Il mondo” di Pannunzio, il suo incontro con Moravia e le malinconie del periodo romano in questo splendido saggio di Pino Neri
Fin dal quinto numero del 19 marzo del 1949,Alvaro cominciò a scrivere dapprima come critico teatrale fino al dicembre del 1951 ,quindi come critico cinematografico fino al 1953. “Il Mondo” di Pannunzio è una straordinaria raccolta di momenti culturali,arte, letteratura, cinematografia, teatro, poesia, rappresenta negli anni della vera cultura un panorama vasto di interessi letterari, riunendo attorno una temperie di spiriti, amanti delle lettere e delle arti. Alvaro, ogni settimana, sul tardi della giornata, consegna due paginette dattiloscritte al direttore Mario Pannunzio o articoli di critica teatrale scritti a mano, anche in fretta su fogli di bozze di giornale, ma silenzioso ed anche ombroso di carattere, chiuso nella sua calabresità, ma già alto nella formazione culturale, da sovrastare molti degli scrittori giovani che fanno ampia cerchia al “Mondo”. Maccari, Flaiano, Carlo Antoni, Cesarini Sforza, Aldo Garosci, Vigolo, Chiaromonte, Baldini, la “generation” dei colti.
Scrive Russo : ”Corrado Alvaro mi colpi’ subito perché se ne stava taciturno,quasi in disparte,ad ascoltare i discorsi degli altri verso i quali ogni tanto rivolgeva la sua testa cosi’ solennemente calabrese. Se pronunziava un parere lo faceva con poche parole in un modo che lo rassomiglia a Sciascia, anche lui come Alvaro non molto loquace e portato piuttosto ad ascoltare in silenzio. Ogni sera aveva al “Mondo” il suo colore predominante, che poteva essere prevalentemente letterario se capitava Moravia con aria corrucciata o Angioletti l’occhio ceruleo illuminato di bontà o Carlo Cassola, Giorgio Bassani o Paolo Milano. Con loro, soprattutto con Alberto Moravia e Arnaldo Bocelli, Alvaro si intratteneva anche se Moravia nella sua inquietudine si stancava presto e si appollaiava in un angolo con altri visitatori…”Il Mondo” chiudeva alle 21 e Alvaro se ne tornava poi a piedi da via Campo Marzio verso la sua bella casa sulla scalinata di piazza di Spagna invitandomi affettuosamente ad accompagnarlo…”. Quando è a Roma, Alvaro è già il grande scrittore affermato dalla critica, e nelle opere precedenti, impegnato quasi nell’impossibile recupero del passato nella misura acronica di una Calabria, chiusa ancora nell’inveterata tradizione feudale, ha già composto il mosaico della civiltà contadina, diviso tra la consapevolezza di un impossibile recupero del passato e l’integrazione di quel mondo con il presente. Il suo diventa, dunque, un realismo colorato anche di favola, ma spesso crudo, quando compone immagini della guerra, della fame, della disperazione dei paesi poveri della locride, in prospettiva di vita della città, quasi richiamo a Pavese (“città-campagna”). Il periodo romano è segnato da lontane malinconie, da richiami alla sua terra, il paese calabrese, San Luca, steso sulla collina aspromontana, tra il verde dei boschi e l’abbandono di stradine inerpicate tra valli e fiumare, ma la vita del giornale lo attrae, è sempre lo scrittore che aspetta la quiete della sera romana per ritrovare il senso della vita e la grande vocazione alla scrittura. “Aspettavo- scrive—le sei di sera, quando la città acquistava un colore elegiaco, era percorsa da una speranza di non si sa che giorni, fino all’ora in cui d’incanto si faceva deserta. ” Nonostante la grandezza dello scrittore già stimato ed amato dagli italiani per le numerose pubblicazioni: “Il vate irritabile”, e altri saggi sul “Mondo”, “La lunga notte di Medea”, “Quasi una vita”, “Giornale di uno scrittore”, e tantissimi altri, Alvaro, in questo periodo appare triste, solo, col grande magone della Calabria, lontana. Massimo, il figlio, racconta delle sue abitudini romane, severe, con la sveglia alle 6,30-7 del mattino, subito al lavoro fino all’ora di pranzo, seduto al la scrivania, senza concedersi pause, pomeriggio, qualche passeggiata Quindi le visite del fascista Bottai, il gerarca intelligente e colto del regime, che lo invitava a iscriversi al Partito Nazionale Fascista: “Ti nomino Accademico di Italia all’istante”, ma Alvaro rifiutò, anche se nell’opuscolo sulla bonifica dell’Agro pontino vi è una palese ammirazione nei confronti di Mussolini. Era questo un gesto letterario di molti altri scrittori ? Pavese, in molte sue lettere al Duce “inchinava il capo e faceva atto di piena sottomissione” per evitare il confino, Alvaro ha uno stretto legame con Gentile e con Malaparte che lo appoggiano nel fargli conferire il premio letterario “La Stampa” nel 1931 dalla giuria di cui facevano parte Ojetti, Pellizzi, Pirandello.
E’ il periodo più difficile per la società italiana, chiusa nel regime, dove artisti e scrittori tentano di uscirne attraverso il ritmo di opere che già echeggiano il romanzo americano, terreno di libertà. Già ne “L’uomo è forte” del 1938 Alvaro narra il sentimento collettivo della paura in un qualsiasi stato totalitario e l’opera era stata ispirata dal soggiorno in Russia, al tempo di Stalin. Uomini forti erano stati Solzenicyn, Pasternak, il fisico nucleare Sacarov e in Italia i condannati dal Tribunale speciale, Gramsci, Bauer, Rossi, Ruffini, Bonaiuti o, in Germania, i fratelli Hans e Sophie Scholl che nel 1943 promossero all’università di Monaco il movimento antinazista “Die Weisse Rose” (La rosa bianca), arrestati dalla gestapo furono processati e decapitati. Alvaro, aveva già denunciato nel romanzo, anche se in forma allegorica, il regime di terrore instaurato in Russia dalle ideologie collettivistiche, si poneva più vicino a Silone, a Jovine, a Vittorini, diverso da Moravia che racconta di quel periodo, forse anche in modo staccato e freddo, senza alcuna forma di partecipazione. Moravia, quando parla del suo incontro romano con Alvaro, lo descrive “fisicamente fatto come un contadino del Sud”, con qualcosa di dolente e di chiuso,di irrisolto “ come se si portasse dentro la nobile depressione del suo paese d’origine”. Ma lui, lo scrittore calabrese, ebbe un grande senso della liberta’, e nei salotti letterari della Roma intellettuale, assieme agli amici che frequentava, da Bontempelli a Ungaretti, da Guttuso a Missiroli, Brancati,Piovene, Flora Volpini che con “La Fiorentina” entrava in finale del Premio Strega, suscitando le ire della Bellonci, si faceva notare per la sua ampia cultura, per la sua antipatia di stare sempre in un posto, preferendo viaggiare continuamente. Anzi Giovanni Russo scrive: “ Alvaro era molto dispiaciuto che si parlava a suo proposito di formalismi e lo si accusava di non sapere scrivere un romanzo….mentre “Vent’anni” che è stato ripubblicato adesso, è un bel romanzo della guerra. Era un uomo – osservava pure Macchia- che aveva una specie di “horreur du domicile” perché non riusciva a rimanere a lungo senza andare via da casa ed ha viaggiato tanto. “Amico di questi anni romani è Libero Bigiaretti, assieme fondano il Sindacato degli scrittori, aiutando gli scrittori ammalati, in forte disagio economico, sindacato sciolto poi e assorbito dall’0rganizzazione sindacale confederale, sicchè andò perduta “ la sua peculiarità”. Periodo dolce, di incontri con poeti e artisti italiani e romani, ma ogni tanto si rabbuiava il nostro Alvaro, preso dalla condizione delle lettere in quel triste periodo e dal carattere di alcuni intellettuali che pretendevano di guardarlo come “scrittore calabrese”. Bigiaretti è l’amico a cui confidare i segreti della sua arte, e per ragioni affettive Alvaro volle comperare la casa, la villa di Vallerano, vicino a Viterbo, dopo la morte dell’amico. Scrive Russo: “ I mobili dello studio di quella sua residenza campagnola sono stati donati dalla vedova, insieme con i libri, alla biblioteca comunale di Reggio Calabria, e li ho visti alcuni anni dopo la sua morte. Nella fredda stanza di questo edificio moderno, sembravano come spaesati, circondati dalle scansie di metallo dove sono stati custoditi i libri: oggetti già da museo, la semplice scrivania con la sedia che avrebbe potuto usare un parroco di campagna; l’armadio con rustiche decorazioni settecentesche; le stampe cinesi,il tappeto persiano, le due poltroncine, il tavolino basso di marmo, lo specchio dorato.
Danno un’idea più viva di lui gli oggetti minori: la ceneriera, il tagliacarte, il vasetto d’argento in cui è nascosto un calamaio di vetro, da scolaro, come il pennino che vi intingeva e soprattutto la predella segnata da incisioni come se fosse stata tagliuzzata con un coltello. Erano i segni lasciati dai tacchi delle sue scarpe che egli strofinava nervosamente sul legno mentre scriveva.” Il mattino dell’11 giugno 1956 Alvaro muore nella sua casa di Piazza di Spagna. Ad accompagnare la salma sono i parenti di San Luca, la sorella, il sacerdote don Massimo, fratello dello scrittore, che officia il funerale, parroco di Caraffa del Bianco, la vedova donna Laura. Il 24 ottobre 1965, a Reggio Calabria, viene eretto un monumento ad opera dello scultore Alessandro Monteleone e il discorso ufficiale viene tenuto da Leonida Repaci, mentre lo scultore stesso pronuncia brevi e profonde parole di commozione: “Il monumento a Corrado Alvaro mi si è presentato come rapporto tra lo scrittore di S.Luca e la terra che gli diede i natali, tra il narratore, lo storico, il moralista e quel filone di vecchia eterna Calabria che c’è nelle sue opere. Alvaro resta calabrese anche se la sua fatica riflette tutte le istanze del mondo in cui visse, tutte le inquietudini e le disperazioni della cultura contemporanea…Ho concepito il monumento come una serie di pagine di pietra sulle quali i Calabresi imparino ad amare la Calabria attraverso il pensiero di uno dei suoi figli più grandi “.