DAI GENITORI DI MICHELE PENNA LETTERA APERTA ALLE ISTITUZIONI: “ridateci il corpo di nostro figlio”

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Una lettera aperta inviata alle testate giornalistiche locali e nazionali e a numerose istituzioni (Comando generale Carabinieri Roma, Capo della Polizia Roma, Ministro dell’Interno Roma, Ufficio persone scomparse ministero dell’Interno Roma, Prefetto Vibo Valentia, Associazione “Libera” sedi di Vibo e Firenze) per raccontare disperazione, paure, delusioni, amarezze. Ma anche per denunciare carenze, insensibilità, ipocrisie. Tre cartelle fitte fitte per restare aggrappati alla speranza schierendosi su linee di chiarezza, un indice puntato contro tutti e contro tutto senza tralasciare nomi e nascondere fatti. Un appello finale che scaturisce dall’anima logorata dalla sofferenza e dal dolore: <Ridateci il corpo di nostro figlio. Portate avanti sul serio le indagini. Combattete veramente, non con titoli giornalistici e metafore, questa mafia che opprime le nostre esistenze. Aiutateci tutti in questa battaglia che da soli non potrà essere mai combattuta e che ha necessità di essere pretesa da tutti i cittadini onesti di questa abbandonata provincia>.

A mettere nero su bianco dopo anni di notti insonni e giornate trascorse ad aspettare una testimonianza, una parola, un cenno per arrivare alla verità, sono Domenico Penna e Cristina Arcella, genitori di Michele, scomparso nel 2007 per mano omicida senza che il suo corpo venisse mai ritrovato. Non c’è rancore in quello che scrivono, rabbia sì e pure tanta. Non cercano vendetta, vogliono solo dare sepoltura al loro figliolo, avere una tomba sulla quale portare un fiore e piangerne il destino. In quasi cinque anni di calvario hanno bussato a tante porte, cercato dappertutto, scavato anche con le mani. Hanno spesso chiesto aiuto alle istituzioni: risposte concrete poche, risultati zero. Una sorta di muro di gomma contro cui sono andate ad infrangersi speranze e aspettative. La percezione quasi di una non volontà di operare, l’accettazione dei limiti del diritto alla verità, una specie di assuefazione al contesto ambientale e agli eventi, un “male oscuro” ma non troppo, che coinvolge tutto e tutti. Domenico e Cristina, entrambi insegnanti, ricostruiscono la loro triste storia partendo dall’inizio.

Riconoscono ed esaltano l’impegno dei carabinieri di Sant’Onofrio guidati dal luogotenente Cannizzaro, nonché dei luogotenenti Sansalone e Orefici e del tenente Spadaro, tutti appartenenti al Reparto Operativo dell’Arma di Vibo Valentia. Ricordano il sostegno della dottoressa Marisa Manzini nel 2009, all’epoca sostituto procuratore distrettuale di Catanzaro, <che ha rivolto – scrivono – non poca attenzione alla nostra vicenda>. Ma così come riconoscono e lodano l’impegno profuso dai militari dell’Arma, i genitori di Michele Penna non esitano a sottolineare che <dopo la prima fase investigativa, lo stesso reparto Operativo dei Carabinieri di Vibo Valentia si è sempre dimostrato restio e poco interessato a svolgere un’attività investigativa più incisiva, a nostro parere utile per venire a capo dell’intero gruppo criminale che ha ordinato il delitto e sicuramente altrettanto utile per evitare alcuni omicidi successivi che si sono perpetuati nel piccolo centro di Stefanaconi sino ai giorni odierni>. Una sorta di progressivo disimpegno nel <dedicarsi alle ricerche del cadavere di nostro figlio mai più rintracciato>.

Davanti agli occhi dei genitori del giovane scomparso scorrono le immagini dei lavori di scavo portati avanti sulla collina di Stefanaconi con mezzi meccanici, la solidarietà degli amici e dei volontari, ma entrambi non dimenticano come <dai carabinieri di Vibo, nonostante le nostre insistenti richieste di ampliare il fronte delle ricerche, arrivassero segnali di avversità all’attività in corso>. Vero, falso, solo dubbi e sospetti dettati dalla disperazione? I Carabinieri una motivazione approssimativa ce l’avevano. <Ci dicevano sempre – asseriscono i due genitori – di essere costantemente impegnati>. Poi <sono state effettuate anche ricerche in altre zone, condotte di nostra iniziativa con l’ausilio di volontari, ma sempre sostenuti dalla presenza dei soli Carabinieri di Sant’Onofrio>. E a loro fianco anche i luogiotenenti Sansalone e Orefice, il tenente Spadaro. Elementi questi che emergevano, a livello investigativo <dalla lettura delle pagine processuali e dalla celebrazione dei processi>.

Le loro riflessioni più vanno avanti più generano perplessità. Assumono, a poco a poco, connotazioni di denuncia. <Siamo complessivamente delusi – rimarcano – perché le indagini svolte hanno posto in risalto l’esistenza di altri reati e l’insorgere di una vera e propria organizzazione criminale che ha voluto la soppressione di nostro figlio e in tale direzione, nonostante le nostre insistenze e le nostre richieste avanzate un po’ a tutti, nulla è stato mai fatto. Eppure – aggiungono – ci siamo rivolti a tutti coloro che erano deputati a intervenire, ci siamo rivolti alla stessa dottoressa Manzini prima ed al dott. Boninsegna poi, ci siamo rivolti ai Comandanti dell’Arma dei Carabinieri di Vibo Valentia, ma nulla è stato poi fatto>. Una situazione difficile, insopportabile anche perchè <presso la Procura di Catanzaro – sostengono – giace un procedimento mai sviluppato e quel che è più grave non vi è nessuno più disposto a condurre quelle indagini>. Tanto per essere chiari <le uniche promesse in tal senso – proseguono – le avevamo avute dal tenente Spadaro, improvvisamente poi trasferito, e dal luogotenente Cannizzaro che ci dice che nulla ha potuto più fare. Abbiamo invocato tutti gli inquirenti a portare avanti quel procedimento ed a leggere attentamente le intercettazioni già fatte che oggi conosciamo a memoria; ci siamo rivolti al dott, Borrelli, procuratore della Dda, ci siamo rivolti al dott. Boninsegna, suo sostituto, ci siamo rivolti ai massimi vertici provinciali dell’Arma dei Carabinieri, ma con esiti deludenti>.

Raccontano ancora di incontri sollecitati allo stesso comando provinciale della Benemerita, parlano di mancate risposte, di vaghe assicurazioni da parte di qualche ufficiale e di qualche intervista televisiva tagliata nelle parti in cui veniva denunciata l’indefferenza dei vertici dell’Arma con conseguente conferma che <viene esercitato anche il controllo degli organi di stampa>. In sostanza <ci siamo scontrati – sottolineano i due genitori – con indifferenza ed insensibilità su tutti i fronti. Le istituzioni non ci ascoltano>. Eppure sono quelle stesse istituzioni, che dopo un Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica tenutosi a Stefanaconi, <hanno indotto i giornali a titolare che “Bisogna combattere la mafia” e che i cittadini devono collaborare. Ma non è quello che noi da anni cerchiamo di fare senza essere ascoltati?>. Resta il fatto che, andando avanti, <a nulla sono valse le nostre suppliche, le nostre invocazioni, le nostre richieste di essere almeno ascoltati. Per le ricerche del corpo di nostro figlio – lamentano i coniugi Penna – nessun esito hanno avuto neppure le reiterate lettere rivolte all’Alto Commissario per le ricerche delle persone scomparse>. Un dubbio, più dubbi inquietanti si fanno strada nella loro mente: se questi magistrati o questi vertici dell’Arma ci avessero almeno ascoltato – si chiedono – si sarebbero potuti evitare tutti i successivi omicidi che si sono verificati a Stefanaconi? Si sarebbe potuto evitare che Stefanaconi diventasse oggi teatro di una vera e propria guerra criminale (solo dal mese di settembre ad oggi ben 3 sono stati i morti)?>. Amarezza e rabbia sembrano prendere il sopravvento. Le parole di Domenico Penna e Cristina Arcella si tramutano in un crescendo di critiche aperte all’operato istituzionale. Una serie di dardi che centrano e sbriciolano l’antimafia fatta a parole, i proclami non seguìti dai fatti, le continue “chiamate” a lottare su un fronte che, stando ai fatti raccontati, sembra creare meno fastidio di quanto si voglia far credere.

<Queste istituzioni, questi vertici della Forze dell’Ordine di Vibo Valentia – sottolineano i genitori di Michele Penna – perché non si sono mossi e, soprattutto, perché dimostrano insofferenza ed apatia verso una situazione che ha reso precaria l’esistenza nella provincia di Vibo Valentia? Dove sono le altre istituzioni ed anche quelle di carattere socio-culturale che hanno come scopo ufficiale quello di combattere la malavitosità?>. La realtà è che <nei nostri paesi – continuano – siamo soli ed abbandonati da tutti e solo in qualche caso rimangono baluardo insostituibile la chiesa e i Carabinieri dei piccoli comuni>. In proposito, rammentano gli scavi condotti nei giorni scorsi, a sorpresa, nella valle del Mesima e improvvisamente interrotti dagli uomini dell’Arma per obbedire <ad altri impegni non precisati>. Inutile ogni sollecito, ogni supplica a proseguire. E, allora, <abbiamo continuato da soli a scavare per due giorni – evidenziano – ed abbiamo dovuto assistere anche alla beffa degli stessi carabinieri di Vibo Valentia che di tanto in tanto si presentavano sul posto solo per chiederci : Chi sono i proprietari dei terreni? Chi vi ha dato i mezzi? Chi vi ha autorizzato? Quanto andate ancora avanti? Nulla ci hanno richiesto in relazione alle ricerche e nessuno è stato mandato a curare l’andamento degli scavi>. Arriva il momento dello sconforto. Fa capolino la sensazione di sentirsi soli, senza punti di riferimento. Gli interrogativi s’affollano e s’infittiscono: Ma esistono a Vibo le istituzioni? Si combattono realmente la mafia e le organizzazioni criminali oppure le forze dell’ordine sono impegnate in altro? Si dà risalto sui giornali all’arresto di ladri, al ritrovamento di qualche pistola, alle risse o addirittura alle multe fatte ai locali pubblici, ma al resto?>. A Domenico Penna e Cristina Arcella <viene il dubbio che forse certe carriere si costruiscono con queste cose e non con lo stare a fianco dei concittadini onesti che giornalmente vengono oppressi dalle organizzazioni mafiose>. Parole dure, che ora rotoleranno su più scrivanie istituzionali e nelle redazioni degli organi di stampa. Forse faranno rumore. Forse diventeranno carte appallottolate da lanciare nel cestino. Perchè nulla cambi. Perchè il silenzio continui a paralizzare le coscienze dormienti. Ma sino a quando? Il dolore di un padre e di una madre merita rispetto. Lo si smorza regalando loro verità e giustizia, lavorando per far sentire al loro fianco la presenza dello Stato, dando tanto spazio ai dati reali. Per l’antimafia fatta a parole il tempo è scaduto.

Pino BrosioAuthor

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